La sfida delle città intelligenti- LASTAMPA.it

9 03 2012

La sfida delle città intelligenti- LASTAMPA.it.





Carbone ko

8 03 2012

Il carbone rappresenta il principale nemico dell’equilibrio climatico sulla Terra: l’utilizzo di questo combustibile fossile incide per un terzo delle emissioni globali specifiche di gas ad effetto serra (in particolare di CO2). Queste emissioni sono però destinate ad aumentare del 60% entro il 2030. E’ evidente che, se così fosse, non ci sarebbe speranza alcuna di salvare il Pianeta che andrebbe incontro a morte certa, inoltre gli obiettivi del 20-20-20 posti dall’UE non avrebbero possibilità di essere centrati. Il problema principale di questo possibile aumento è dovuto alla mancanza di tecnologie “pulite” in grado di sostituire realmente le centrali a carbone, come anche quelle nucleari. Inoltre la questione ambientale non è l’unica a preoccupare. Vi è infatti un rischio gravissimo per le popolazioni locali che subiscono passivamente le emissioni di queste centrali a carbone: si stima che in Cina la “combustione del carbone sia la prima fonte di inquinamento atmosferico, responsabile di 350-400 mila morti ogni anno”[1].

La situazione in Italia non è delle migliori: “con 550 milioni di tonnellate di CO2, l’Italia è il terzo paese europeo per emissioni (era quinto nel 1990 e quarto nel 2000). Rispetto al 1990 – anno di riferimento per l’obiettivo di riduzione del 6,5% entro il 2010 del Protocollo di Kyoto – la crescita delle emissioni lorde italiane è stata del 7,1%, soprattutto a causa dell’aumento dei consumi per trasporti (+24%), della produzione di energia elettrica (+14%) e della produzione di riscaldamento per usi civili (+5%). Le emissioni nette, considerando i cambiamenti d’uso del suolo e l’incremento della superficie forestale, sono cresciute del 5%”[2]. In particolare le emissioni in Italia (2007) sono dovute per il 26% all’industria, per il 25% alla produzione energetica, per il 23% dai trasporti e per il 16% dall’edilizia. Per quanto concerne il settore dell’energia elettrica, le emissioni in Italia sono poco meno di 140 milioni di tonnellate di CO2 all’anno, e di queste emissioni circa 50 milioni di tonnellate di CO2 sono dovute alla produzione energetica in centrali termoelettriche a carbone, che ha un peso del 36-37% sulle emissioni totali provenienti da produzione di energia elettrica. Eliminare le centrali a carbone, dunque, non solo permetterebbe di centrare l’obiettivo posto dall’Unione Europea (riduzione del 20% di emissioni nel settore “Energia”), ma quasi di raddoppiarlo. Le tecnologie per produrre energia elettrica da fonti rinnovabili sono, come si anticipava, alquanto mediocri. Facciamo un esempio concreto: la centrale a Carbone “Federico II” di Brindisi si estende su una superficie di circa 250 ettari e produce circa 2,64 Gigawatt di energia elettrica (pari a 2.640 Megawatt). Con le attuali tecnologie, ad esempio con i pannelli fotovoltaici, per produrre un megawatt di energia servono 2-3 ettari di terreno, per produrre 2.640 megawatt servirebbero tra 5.700 e 9.000 ettari. Una quantità enorme, soprattutto se si tiene in considerazione che l’economia brindisina è fondata sull’agricoltura, e che sottrarre quasi diecimila ettari alle coltivazioni significa mandare a rotoli l’economia e le migliaia di famiglie che vivono grazie alla vendita di prodotti agricoli prodotti “in casa”. Anche la tecnologia eolica richiede un quantitativo di terreno simile a quello del fotovoltaico, mentre se si considera la biomassa per un megawatt di energia prodotta servono almeno 1.200 ettari per la coltivazione di prodotti agricoli (girasoli su tutti) destinati all’industria energetica. Per eguagliare lo stesso quantitativo di energia prodotta dalla centrale a carbone, Federico II, servirebbero oltre tre milioni di ettari (nel solo brindisino), una quantità irrazionale che deve sicuramente far riflettere sui grossi limiti delle attuali tecnologie. Un’altra tecnologia, in cui l’Italia risulta essere all’avanguardia nel settore, è quella della geotermia, ma anche qui, a causa delle gravi conseguenze che si porterebbero ripercuotere sulle falde acquifere del sottosuolo, non può essere utilizzata per produzione di energia elettrica industriale.

Le cifre riportate finora sono indicative, tuttavia sono limitate al solo territorio brindisino. Se volessimo dare una immagine più “energica” di questi dati, potremmo prendere in considerazione tutte le centrali a carbone presenti sul territorio italiano, che come già detto, producono circa 11 Gigawatt (11.000 megawatt) di energia elettrica. Per fornire lo stesso quantitativo di energia con l’eolico o con il fotovoltaico servirebbero dai 20.000 ai 40.000 ettari. Per la biomassa oltre 13 milioni di ettari di terreno. In definitiva, tutte le attuali tecnologie hanno caratteristiche strutturali fortemente limitative, e per la smisurata quantità di territorio occupato, e per gli scarsi risultati in termini di energia prodotta. Eppure, esiste una soluzione a questo problema: la tecnologia Kitegen. Giostre eoliche ad alta quota in grado di azzerare totalmente le emissioni di CO2. E’ stata testata la prima centrale Kitegen Stem. Ancora troppo poco purtroppo, ma quando si arriverà a testare la prima centrale Kitegen Carousel on-shore e off-shore, beh, allora vivremo una nuova era storica, proprio come l’invenzione del telefono e della luce elettrica. Una centrale che dal vento sarà capace di generare circa un Gigawatt di energia elettrica. Il problema è solo uno: chi ha interessi così forti da volere ancora l’ampliamento delle centrali a carbone, come quella di Cerano?


[1] Rapporto Greenpaece, “Brutto carbone”;

[2] Rapporto “Ambiente Italia 2010” di Legambiente;

L’immagine è tratta dal sito http://kitegen.com/tecnologia-2/kite-gen-stem-off-shore/





WWF Italia – Rio+20

6 03 2012

 

 

WWF Italia – Rio+20.





Planning for Real

6 03 2012

 

Coinvolgere nei processi partecipativi e decisionali i cittadini non è sempre facile, per vari motivi, quali ad esempio l’incapacità (dovuta al non essere abituati) degli stessi a parlare in pubblico, l’inesperienza di doversi confrontare con altri stakeholders e quindi trovarsi in situazioni di conflittualità che non si sa come gestire, o la mancanza di conoscenze tecniche che permettano ai cittadini di capire, rapidamente, cosa e come un progetto o un programma può comportare un cambiamento per la propria realtà ed per la qualità della vita, e quindi poter valutare a priori se esso è attinente alle richieste del cittadino stesso. Per questo motivo è necessario che l’informazione e la comunicazione da parte delle istituzioni pubbliche sia semplificata al massimo, e che questa utilizzi metodologie semplificate, mediante l’aiuto di esperti nel settore (comunicatori, mediatori, valutatori, esperti della grafica 3D per simulare una idea e, mostrando il prodotto, dare la possibilità di capire a tutti in maniera concreta quali sarebbero in fase attuative le idee emerse durante gli incontri, ecc.) che possano facilitare la comprensione di tutti gli stakeholders, in maniera tale che tutti possano esprimere una propria idea senza doversi sentire in uno stato di inadeguatezza che, di fatto, porterebbe al fallimento del progetto/programma stesso. Da questo punto di vista, due metodologie concrete e molto interessanti, capaci di portare a risultati ottimali il processo di partecipazione e di decisione degli stakeholders, sono sicuramente il “Consensus Building” ed il “Planning for Real”. Con il primo metodo, il Consensus Building, «[…] (o anche “trasformazione dei conflitti”), si ricomprende una famiglia di metodologie inizialmente proposte dall’Harvard Negotiation Project (Susskind et al. 1999) e riprese da altri centri di ricerca, che consentono di affrontare situazioni di conflitto. L’obiettivo è affrontare queste situazioni con l’intento di trasformarle, portando le persone ad assumere un punto di vista comune cercando di raggiungere un accordo che offra vantaggi a tutte le parti in causa. La base teorica è costituita dall’idea che la negoziazione possa essere svolta in modo integrativo o creativo, lavorando sugli interessi anziché sulle posizioni delle parti, spesso con l’assistenza di un mediatore»[1].

Un esempio applicato in Italia di Consensus Building è quello delle ex fonderie di Modena, avviato su incarico degli assessori al Bilancio e Partecipazione e Gestione del Territorio del comune stesso. Il progetto è nato dall’esigenza del Comune di risparmiare circa un milione e cento mila euro all’anno di affitti attraverso la costruzione di uffici per una superficie di circa 12.000 metri quadrati (come riportato nel verbale TCC del 31 maggio 2007). E questo, combinando varie questioni: la costruzione di uffici per il comune di Modena, l’innovazione tecnologica unita alla conservazione dell’aspetto storico e culturale delle ex fonderie (area presa in considerazione per il progetto), un luogo comprensivo di molteplici attività (culturali, sociali, educative, e via discorrendo) in grado di autofinanziarsi o di generare profitto e sgravare il più possibile il Comune dai costi di gestione dell’area.

Il Planning for Real, invece, risulta essere la strategia migliore per incentivare i cittadini a discutere, mediante l’utilizzo di un plastico, di problemi legati alla collettività: Come è già stato accennato, la partecipazione dei cittadini e degli stakeholders in generale che non possiedono competenze tecniche in campo urbanistico e progettuale è un problema serio da affrontare e risolvere. Essi devono essere messi, allora, nelle condizioni, da parte dell’amministrazione pubblica, di poter recepire tutte le informazioni concernenti l’argomento in questione, qualsiasi esso sia, effettuando una informazione ed una comunicazione semplificata al massimo, e mediante l’aiuto di intermediatori e professionisti della comunicazione che la agevolino. L’utilizzo ad esempio di esperti in grafica tridimensionale è sicuramente un aiuto consistente da questo punto di vista. Poter “sintetizzare” le idee emerse nel corso dei vari incontri con gli stakeholders, in progetti pratici (3D), metterebbe questi ultimi nelle condizioni di poter dare risposte concrete (e non tecniche) sul “come questa idea potrebbe cambiare realmente una determinata situazione”. E quindi, riuscire a coinvolgerli nella discussione, che, come precedentemente ricordato, davanti a questioni molto complesse, tecniche e poco chiare, sarebbero portati invece a chiudersi in sé e a non dare consigli o pareri sull’argomento.

La partecipazione non può consentire una autoesclusione dei partecipanti, ciò significherebbe il fallimento del progetto/programma. Il metodo del “Planning for Real” è molto semplice e proprio perché semplice può permettere agli stakeholders di avere un contatto “diretto” con la realtà, cioè portando delle modifiche territoriali “ipotetiche” sperimentate su modellini che i partecipanti vanno a comporre e rimodellare, sintetizzando i vari punti di vista. E’ quindi un metodo pratico, e la pratica si sa, è il modo più diretto e veloce per comprendere un cambiamento o una modifica.

«Il “Planning for Real” è una tecnica proposta da Tony Gilbson della Neighborhoos Iniziative Foundation che consente ai cittadini di partecipare ad un processo di riqualificazione urbana lavorando su un plastico del quartiere e di esprimere le loro preferenze giocando le carte. Ciò consente loro di simulare le trasformazioni in modo facilmente comprensibile per tutti»[2].

«Il “Planning for Real” è un metodo che aiuta le comunità locali a vedere i problemi nella loro complessità; a sperimentarsi con la gestione democratica e comunitaria di spazi ed iniziative; a concentrare le proprie risorse in un programma di sviluppo realistico; ad agire con il sostegno e la partecipazione di esperti. Il Planning for Real è una tecnica alternativa all’assemblea di discussione pubblica, che consente ad ogni partecipante di esprimere le proprie opinioni liberamente. Il Planning for Real è, in poche parole, un gioco di simulazione che stimola la discussione in un luogo pubblico ponendo le persone di fronte alla rappresentazione evocativa del problema. Il punto di partenza è infatti la costruzione di un modello tridimensionale della realtà locale dove è localizzato l’oggetto da progettare […]. Tutti possono esprimere le proprie idee e proposte progettuali, ogni persona è chiamata a posizionare appositi cartoncini direttamente sul plastico in corrispondenza dell’intervento migliorativo che intende suggerire; ciascuno può anche attribuire delle “priorità”, dunque esprimersi sulle cose più importanti da realizzare. I cartoncini vengono poi raccolti e rielaborati dallo staff tecnico, che ne restituisce alla comunità una sintesi attraverso una presentazione dell’oggetto da progettare, migliorata ed arricchita dal contributo dei partecipanti al Planning for Real»[3].

La combinazione poi del Planning for Real con le nuove tecnologie, in particolare mediante l’utilizzo di software di grafica 3D curata da esperti, potrebbe agevolare ancora di più questa fase conclusiva, cioè una sintesi delle idee raccolte dallo staff tecnico e riprodotte sia sul modellino, sia in 3D virtuale con una grafica più dettagliata e quindi ancora più comprensibile agli occhi dei partecipanti.

L’utilizzo di nuove tecnologie, può cambiare il modo di intendere il vecchio rapporto stakeholders/decision makers e porre le basi per un processo partecipativo e decisionale sempre più forte e reale, in cui i cittadini e i portatori di interesse siano davvero i protagonisti decisivi nella decisione, realizzazione, gestione e valutazione di un progetto o programma. E’, quindi, uno strumento capace di far confluire le esigenze urbanistiche con quelle sociali, il punto di partenza per avere un territorio pensato e condiviso da tutti i suoi fruitori.


[1] Modelli di coinvolgimento dei cittadini nelle scelte pubbliche, Bobbio, p. 22, Approcci e tecniche;

[2] Modelli di coinvolgimento dei cittadini nelle scelte pubbliche, Bobbio, p. 22, Approcci e tecniche;

[3] Una spiegazione interessante del Real for Planning fornita dall’Arch. Caperna, e rintracciabile sul web http://www.progettarepertutti.org/formazione/lez16_cap.pdf;

L’immagine è presa dal blog http://etmpalermo.wordpress.com/2011/11/30/piccoli-e-grandi-passi-del-progetto-parterre-il-planning-for-real-con-le-scuole-di-brancaccio-2/img_0050-3/ sul quale è possibile rintracciare altre notizie su alcune esperienze avute con il metodo del “Planning for Real”.

 





Pueblo Hotel: sbarca in Spagna la formula tutta italiana dell’Albergo Diffuso

5 03 2012

 

Tratto dal sito www.greenme.it a cura di Simona Falasca.

L’Albergo Diffuso sbarca anche in Spagna. L’innovativa quanto ecologica formula di ospitalità tutta italiana, nata dall’esigenza di riqualificare e ripopolare antichi borghi, conquista il popolo iberico che inaugura il primo “Pueblo hotel” in provincia di Salamanca.

Alla base del successo di questa originale ricetta di ospitalità made in Italy, definita anche dal New York Times “semplice ma geniale”, la possibilità di godere della familiarità della casa, con tutte le comodità fornite dagli alberghi. Un modello turistico sostenibile di cui noi ci eravamo innamorati da subito, quando abbiamo visitato in prima persona il primo albergo diffuso d’Italia, quello di Sauris in quanto permette di valorizzare la specificità dei territori senza consumare ulteriormente suolo, ma rivalorizzando le strutture esistenti.

 

Come ricorderete il modello di albergo diffuso è stato messo a punto da Giancarlo Dall’Ara , docente di marketing turistico e oggi Presidente dell’Associazione Nazionale Alberghi Diffusi. Si tratta di una sorta di “hotel orizzontale” dove le case che lo compongono, abitazioni tipiche, restaurate econdo il sapore locale del piccolo centro nel quale sorgono, diventano le camere “diffuse” che distano un massimo di 200 m tra di loro. Il tutto con un attenzione particolare alla sostenibilità, ai prodotti locali e alla valorizzazione del territorio.

A 14 anni del suo debutto ufficiale, in Italia sono ormai 60 le strutture che hanno deciso di utilizzare la formula dell’albergo diffuso, che si sono riunite anche in un associazione  per promuovere l’idea che “l’”albergo che non si costruisce, ma offre i suoi servizi distribuendoli  all’interno di case a poca distanza l’una dall’altra, permettendo di vivere a contatto con i residenti del luogo e di respirare appieno i sapori e le atmosfere locali”.

E oggi anche la Spagna ha voluto adottare questa formula vincente aprendone uno alle porte del parco naturale Arribes del Duero, una zona rinomata per il suo straordinario patrimonio naturale e i suoi pregiatissimi vini.

A scommettere sul Pueblo Hotel è stata una catena di piccoli alberghi a 5 stelle, THE HACIENDAS, che negli ultimi anni, ha portato avanti una proficua collaborazione con le amministrazioni locali dell’antico Borgo di Ledesma, a pochi chilometri da Salamanca, per la ristrutturazione degli spazi disabitati e abbandonati del paesino con la finalità di destinarli all’ospitalità turistica.

L’apertura del nuovo Pueblo hotel, che proprio per le medesime caratteristiche e affinità con quelli italiani è stato ufficialmente riconosciuto anche dall’ADI, è prevista per il prossimo Giugno 2012. Si chiamerà HACIENDA ZORITA e comprenderà:

  • Casa de Padua (del 1751): 12 ville e suites con giardino e terrazza private.
  • Enoteca La Alhóndiga cerimonie e banchetti.
  • Casa Abascal ( del 1900 circa) 10 camere.
  • Antica caserma della Guardia Civile: 30 camere + ville e suites
  • Giardini per cocktails.

In bocca al lupo a questa nuova struttura, con la speranza che questa ricotta tutta italiana di ospitalità diventi sempre più internazionale e…diffusa.

Link

http://greenme.it/muoversi/eco-turismo/7115-albergo-diffuso-spagna





Kitegen Carousel

5 03 2012

Si tratta di una soluzione tecnologica che mette sostanzialmente in serie più generatori Kite Gen® Stem, considerati come “modulo base” della configurazione a carosello.

In questa configurazione la forza trasmessa dai cavi viene mantenuta costante mentre la lunghezza degli stessi varia solo per il controllo delle ali e per la scelta della traiettoria ottimale.

Ogni centrale Kite Gen è composta da più unità di manovra trainate dai profili alari lungo un percorso circolare ad anello posto a livello del suolo. Al cuore del sistema risiede il software che senza intervento umano, sulla base di dati ricevuti anche da sensori avionici a bordo dei profili alari (guarda il video dei sensori), interviene sui cavi: in questa maniera le traiettorie di volo possono essere controllate, sincronizzate fra di loro e normalmente dirette alla massima produzione di energia.

Mentre le ali volano a un altezza di 800-1.000 metri dal suolo, l’intera struttura si muove trascinata dalle ali lungo un percorso circolare e l’energia è generata da questo movimento relativo. A regime, il volo dell’intero insieme di ali è guidato in maniera da far ruotare il “carosello” alla velocità desiderata.

Con tale configurazione le centrali Kite Gen sono in grado di intercettare grandissime quantità di vento in quota in una unica installazione. Nell’illustrazione sottostante è rappresentato il fronte vento intercettato da un generatore del tipo “Carousel” con un diametro di 800 m; la stessa quantità viene raggiunta con circa 150 torri eoliche di ultima generazione. Da notare che le torri eoliche hanno bisogno di essere distanziate l’una dall’altra per evitare che interferiscano fra di loro diminuendo la resa totale e occuperebbero quindi un’area a terra totale di più di 40 Km². La centrale Kite Gen, compresa una fascia di rispetto tutt’attorno, occupa circa 5 Km².

.

Nella configurazione “Carousel” La produzione d’energia avviene in maniera distribuita direttamente presso ciascuna unità di manovra, permettendo di evitare eccessi dimensionali delle macchine elettriche.

L’approccio modulare rende inoltre possibile la costruzione impianti Kite Gen di potenza molto grande, dove al crescere del diametro del percorso circolare a terra cresce al quadrato il fronte vento intercettato e quindi la potenza totale del vento estraibile. Centrali Kite Gen da 100 MW, non molto più grandi dell’esempio illustrato, con un diametro del percorso circolare a terra pari a circa 1.000 m, sono stimate avere un costo dell’energia prodotta inferiore a 0,03 € per kWh. La massima taglia raggiungibile è oggetto di studio, ma da valutazioni iniziali appare possibile eccedere i 1.000 MW (1 GW) senza significativi rischi strutturali, con un diametro di circa 1.600 m.

I limiti teorici di questa configurazione appaiono essere un anello di circa 25 km di diametro, molto simile a un viadotto ferroviario, che è la base, o tecnicamente lo statore, sul quale ruota un impianto Kite Gen, i profili alari di potenza volano a fino 10 km di altezza in formazioni controllate, generando un potenza di più di 60 GW.

Lo sviluppo del Kite Gen Carousel avrà luogo successivamente alla diffusione dei generatori del tipo Stem.

Articolo tratto dal sito: www.kitegen.com

Kitegen Carousel





Valutazione Ambientale

13 02 2012

La Direttiva 2001/42/CE sancisce l’obbligo di  Valutazione Ambientale Strategica (V.A.S.) per i grandi progetti di ingegneria, per le opere di pubblica utilità e altre opere, di natura pubblica e privata che possano recare danno all’ambiente e quindi alla salute pubblica delle popolazioni locali, al territorio ed alla biodiversità. Il D.Lsg. n. 04/2008 sulla V.I.A. (Valutazione di Impatto Ambientale) si occupa di fornire gli elementi caratterizzanti di un singolo progetto (dimensionamento, utilizzo di risorse naturali, inquinamento e disturbi ambientali, le opere di manutenzione previste, la regimazione delle acque, etc.) e le eventuali alternative progettuali, ivi compresa l’Opzione Zero che prevede la non realizzazione dell’opera. La V.A.S. (Valutazione Ambientale Strategica), invece, rappresenta uno strumento molto più complesso, in quanto, oltre a valutare le singole opere si preoccupa di valutare l’impatto che una serie di opere ravvicinate possa avere sull’ambiente e sul territorio circostante. Sono due strumenti importantissimi e consentono di valutare appieno le problematiche legate ad una singola opera o a più opere complessivamente, con un unico obiettivo: lo sviluppo armonioso e sostenibile. Presto, la V.I.A. diverrà obbligatoria anche per la costruzione dei singoli edifici.